«Lea in vita si è sentita “una giovane madre disperata”, stanca di chiedere aiuto, di chiedere protezione». A raccontarlo è Paolo De Chiara, giornalista e autore del libro Una femmina calabrese, così Lea Garofalo sfidò la ‘ndrangheta edito da Bonfirraro e arricchito dalla prefazione del magistrato Sebastiano Ardita.
Giovedì 30 marzo, alle ore 17.30, in memoria di Lea Garofalo verrà presentato presso la Feltrinelli di Catania il saggio inchiesta dal titolo Una fimmina calabrese, così Lea Garofalo sfidò la ‘ndrangheta. Oltre all’autore durante la presentazione interverranno il magistrato Sebastiano Ardita, l’editore Salvo Bonfirraro, la giornalista Laura Distefano e l’avvocato Enrico Trantino. Modera l’incontro il giornalista Valerio Musumeci.
Lea Garofalo è viva nella memoria di chi oggi si lascia ispirare dal suo coraggio. Il coraggio a cui Paolo De Chiara ha scelto di dedicare il suo libro inchiesta. Lea Garofalo è nata in Calabria, a Petilia Policastro il 24 aprile 1974, è morta il 24 novembre 2009 a Milano. Uccisa, strangolata e poi bruciata dal clan ‘ndranghetista capeggiato da Carlo Cosco, suo compagno e padre di sua figlia Denise, dall’omertà e dalla solitudine. La morte di Lea non ha sorpreso nessuno, tutti sapevano che sarebbe accaduto, tutti sapevano anni prima della sua morte che Lea era stata condannata. La morte di Lea a distanza di anni è diventata un grido e un inno alla giustizia, ma doveva essere la sua vita a gridare, non la sua morte.
Lea è una testimone, e la scelta delle parole non è mai stata così importante. Lei che ha lottato tutta la vita contro il sistema mafioso veniva chiamata negli atti ufficiali “collaboratrice di giustizia” al pari dei pentiti di mafia che per la mafia però hanno vissuto e operato. Lea è una testimone di ciò che non deve essere dimenticato: il coraggio della sua vita, la forza della sua voce, la passione nel suo essere madre, la costanza con cui ha sempre detto no.
Quando Lea Garofalo, figlia scomoda della ‘ndrangheta, “fimmina” ribelle e forte, decide di rischiare la sua stessa vita per uscire dal giogo della violenza del padre, del fratello, del compagno, tutti ‘ndranghetisti riconosciuti, la giustizia ascolta ma non agisce e Lea sperimenta per la prima volta la vera solitudine.
«Le mafie, sino a oggi, hanno ucciso più di 150 donne»,prosegue De Chiara,«Solo grazie alle fimmine è possibile immaginare un futuro diverso per questo Paese, un futuro senza il puzzo opprimente di queste organizzazioni criminali, che possono tutto per la loro immensa potenza economica e militare».
L’ambiente mafioso è brutale, presuntuoso e non risparmia nessuno, non prevede affetto, rispetto o onore di alcun tipo. Questo è stato il mondo in cui Lea Garofalo ha vissuto dalla nascita e che ha subìto fino alla sua morte. Spiega il magistrato Ardita, «In questo racconto crudo, completo, reale l’autore non fa sconti a quanti non hanno saputo o voluto comprendere l’importanza strategica della collaborazione di Lea, trincerandosi dietro la burocrazia e la incoerenza del sistema normativo».
“La mafia non esiste” sostengono alcuni, ma sappiamo quanto questa dichiarazione sia non solo falsa ma anche violenta. «La mafia esiste e uccide, soprattutto le donne», dichiara l’editore Salvo Bonfirraro, «Donne come Lea, una donna sola, vittima delle circostanze, vittima del sistema criminale che non ammette e non consente opposizioni e che elimina ogni ostacolo alla sua ascesa».
Una donna il cui grido è stato afono finché viva, una donna che solo la morte ha reso credibile. Un passo indietro. Ancora una volta la legge è un passo indietro rispetto alle mafie e nella distanza tra la legge e la criminalità scie di corpi di innocenti, donne e bambini.
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