“Hanno tappato una bocca, ma ne hanno aperte tante altre”. L’omicidio del maresciallo dei carabinieri Alfredo Agosta, avvenuto il 18 marzo del 1992 a Catania, non fu vano. “Quando vedo un teatro con quasi mille persone, tanti ragazzi – spiega all’AGI il figlio Giuseppe Agosta – mi rendo conto che sì quel periodo è lontanto, ma i ragazzi si immedesimano nella figura di mio padre e nel momento della mia testimonianza personale li sento vicini. Alcuni di loro li vedo cominciare a orbitare intorno alla nostra associazione”.
Alfredo Agosta lasciò moglie e tre figli, in quei giorni di inizio primavera: Giovanni, Antonio e Giuseppe, quest’ultimo di soli di soli 7 anni. Catania era contesa tra le varie cosche mafiose: Santapaola, Pillera, Cappello, Ferlito erano i punti di riferimento di Cosa Nostra, che aveva trasformato la citta in una Chicago anni ’20: la posta in gioco era la droga, le armi, le estorsioni, gli appalti. “Le indagini – spiega Giuseppe, che nel corso degli anni ha imparato a conoscere la preparazione investigativa del padre – non si facevano con le intercettazioni telefoniche, ma si andava sul campo a parlare con gli informatori, con i confidenti”.
Il maresciallo Agosta, che all’età di 47 anni ha già il grado di Maresciallo Maggiore Aiutante, viene freddato con colpi d’arma da fuoco sparati a bruciapelo, mentre, come Boris Giuliano tre anni prima a Palermo, sta prendendo un caffè all’interno di un bar in via Firenze, all’angolo con via Vittorio Veneto, in compagnia di un confidente: mancano solo sei mesi all’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. “Abitavamo – racconta Giuseppe, oggi ispettore del lavoro presso la procura della Repubblica etnea – in un palazzo delle forze armate. Mio papà non indossava mai una divisa, e io chiedevo a mia madre: ‘Ma papà è maresciallo o no?’. Poi arrivò un generale a incontrarlo e io cominciai a conoscere così il carabiniere Agosta. Cominciava a lavorare alle 8 del mattino, e finiva dopo le 8 della sera, e come lui tanti uomini delle forze dell’ordine”.
Oggi la sezione di polizia giudiziaria in cui Agosta lavorava è a lui intitolata; sabato scorso l’Arma dei carabinieri ha deposto una corona d’allora nel luogo in cui fu ucciso. Durante la cerimonia è stata letta la motivazione della Medaglia d’Oro e il cappellano militare ha benedetto sia la targa in via Firenze che la corona d’alloro. Molti passanti, udendo il “suono del silenzio” da un trombettiere militare della Fanfara del 12° Reggimento Carabinieri “Sicilia” per onorare i caduti in servizio, si sono fermati per rendere omaggio alla vittima.
Alfredo Agosta era temuto, aveva una memoria di ferro. “Lo chiamavano ‘Archivio’ – spiega il figlio – perchè conosceva bene tutta la piazza mafiosa. Nei miei ricordi c’è una Fiat 127 di colore giallo, con cui percorrevamo la strada che da Catania porta a Misterbianco: era quasi Natale e fummo avvicinati da due moto a bordo delle quali vi erano quattro persone che indossavano i caschi integrali, che allora non metteva nessuno. La cosa mi colpì, poi ricordo che mia madre e mio padre si fermarono, scesero dall’auto e si dissero qualcosa”.
L’associazione antimafia intitolata a Alfredo Agosta promuove la legalità, ricerche e appuntamenti sulla lotta alla criminalità organizzata ma anche l’attenzione ai più vulnerabili: “La politica – dice Giuseppe Agosta – dovrebbe essere libera e attenzionare i bisogni della gente, soprattutto dei cittadini più deboli, penetrare nei quartieri. E’ un problema culturale, e la politica deve fare la sua parte: togliere i ragazzi dalle mani della mafia”.
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