“I migranti devono uscire dal porto ed entrare in città, arrivare fino ai palazzi delle istituzioni”. Si è aperto con questo monito dell’arcivescovo di Catania, monsignor Luigi Renna, il convegno “Fra noi ma invisibili”, organizzato dal Consorzio di Cooperative Il Nodo di Catania, in collaborazione con il Consorzio Communitas di Milano.
L’evento si svolge in queste ore nell’auditorium Concetto Marchesi del Palazzo della Cultura di Catania ed è il momento conclusivo del progetto “Fra noi”, giunto alla seconda edizione e finanziato dal Ministero degli Interni con il Fondo Asilo Migrazione e Integrazione (FAMI). Nel corso del convegno è stato presentato, in anteprima per la Sicilia, il Dossier Statistico Immigrazione 2022, realizzato dal Centro Studi e Ricerche Idos. Si tratta di una fotografia dello stato dell’integrazione in Italia, con un focus dedicato a ogni regione d’Italia.
La fotografia siciliana del Dossier è inclemente: si stima che nei prossimi tre anni l’Isola perderà centomila abitanti. Alla fine del 2020, gli stranieri residenti in Sicilia rappresentano il 3,9 per cento complessivo della popolazione, cioè meno della metà percentuale registrata a livello nazionale (8,7 per cento). Nell’Isola lavorano oltre 1,3 milioni di persone. Solo il 5,3 per cento di queste è straniera. Il 26,8 per cento di loro lavora in campo domestico, mentre il 30 per cento è occupato in agricoltura.
Questi dati si traducono in fatti difficilmente smentibili: gli immigrati accettano spesso condizioni lavorative e salariali ben al di sotto della soglia di accettabilità e povertà, esponendosi così ad abusi e prevaricazioni di ogni genere, pur costituendo una risorsa – economica, in primo luogo – per lo sviluppo dell’economia siciliana.
“Dal punto di vista dell’inserimento sociale e lavorativo degli immigrati la situazione è drammatica – afferma Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche Idos -. Si sono affermati modelli di segregazione occupazionale degli stranieri: noi, da tanti anni, li canalizziamo in massa nelle professioni più basse della scala dei lavori, quelli più pericolosi, meno retribuiti e meno riconosciuti. E questo anche quando si tratta di persone che hanno conseguito titoli di studio che potrebbero loro permettere di ottenere riconoscimenti professionali ben di più alto livello. E invece rimangono schiacciati. Con la conseguente perdita di un patrimonio preziosissimo”.
Responsabilità di questa disfunzione è, certamente, anche l’assenza di politiche nazionali organiche in termini di integrazione. “Non esiste una legge quadro, a livello centrale, sulle politiche di integrazione – prosegue Di Sciullo -. Questo genere di attività è demandata alle Regioni e ognuna opera per come può, e secondo quello che ha. D’altro canto, poi, ci sono gli enti del terzo settore alla cui fantasia è demandata la creazione di progetti. Che, in quanto tali, hanno una durata temporalmente limitata. In Italia abbiamo bloccato l’evoluzione dalle buone prassi isolate alle politiche collettive”.
Di buone prassi si parla nel caso del progetto “Fra noi”, che vede come capofila nazionale il Consorzio Communitas di Milano e come partner siciliano il Consorzio di Cooperative Il Nodo di Catania. “Abbiamo potuto lavorare su due aspetti importantissimi per i cittadini stranieri che vivono qui: l’abitare e il lavoro”, spiega Fabrizio Sigona, presidente del Consorzio di Cooperative Il Nodo. “Abbiamo realizzato percorsi di inserimento in contratti di affitto regolarmente registrati e tirocini formativi in piccole aziende, in qualche caso a conduzione familiare. Tutte le persone che hanno fatto il tirocinio, sono poi state assunte”.
“Al Sud c’è una grande carenza di alloggi che i proprietari mettono a disposizione per gli affitti, e le fondazioni bancarie quasi non hanno investito in progetti di social housing nei nostri territori, quindi l’inserimento in affitto è estremamente importante per i percorsi di integrazione – aggiunge Sigona -. Come nostra scelta, noi facciamo accoglienza diffusa: piccoli nuclei, quattro, sei persone, che vivono insieme. Anche la decisione di avviare i tirocini in piccole aziende risponde alla stessa filosofia: in piccoli gruppi l’integrazione è più facile e spontanea”.
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